35 ore
di Franco Fronzoni
Siamo in una grave crisi occupazionale, come uscirne? Ritengo che senza obbiettivi precisi ed obbligati, senza grinta, senza sforzi, senza sacrifici, nessun miglioramento si possa mai ottenere: questa premessa si adatta alla crisi in corso, che mi appare non solo economica, ma anche morale. Nel passato storico più recente, abbiamo visto altri avvenimenti analoghi a questa crisi, con susseguenti comportamenti (giusti, o, meno giusti) dei governi italiani: la battaglia del grano, la battaglia per l’Impero, per terre italiane perdute dalla Nazione, per miglioramenti sociali, poi una guerra. Nuovi obbiettivi nel quarantennio succeduto alla guerra: la ricostruzione edilizia, quella industriale, quella delle autostrade, la prima casa in proprietà, poi la seconda, nuovi miglioramenti sociali, insieme ad un progresso tecnologico (anch’esso conseguenza della guerra, ma utile e produttivo); poi un’altra crisi (questa attuale), con conseguenze pari a quelle di una guerra non militare.
Come uscirne se, più o meno, siamo in crisi da superproduzione e continuo aumento della disoccupazione in tutto il mondo occidentale?
La mia proposta è di passare da un regime di occupazione lavorativa di 40 ore settimanali, a 35 ore!
A parità di produzione, dovrebbe esserci un aumento occupazionale del 14%; per essere più realisti, si potrebbe raggiungere un aumento occupazionale dell’8-9 %, per tener conto che l’apparato pubblico è già in una condizione di sovraoccupazione e che il privato piccolo tenderebbe a migliorare i propri guadagni, a parziale scapito dell’enunciato aumento occupazionale. Con questa innovazione procederemmo, quindi, verso una quasi piena occupazione.
Naturalmente, la riduzione dell’orario lavorativo determinerebbe un aumento del costo dei prodotti; cerchiamo di valutarne, macroscopicamente, a spanne, la entità.
Poiché il costo del lavoro incide sul prodotto, ipotizziamo mediamente intorno al 30%, la incidenza del diminuito orario lavorativo sul costo finale del prodotto potrebbe risultare intorno al 2,7% (9% x0,30); se, poi, aumentato dell’IVA, questo aumento del costo finale del prodotto salirebbe al 3,2 %. L’aumento può essere sopportato da parte del consumatore e gioverebbe alla produzione, in virtù di una maggiore richiesta di beni, pari (se non superiore) a quello dell’aumento dell’occupazione, ossia del 9%, almeno.
Si potrebbe raggiungere, così, il duplice obbiettivo dell’aumento dell’occupazione e del miglioramento del mercato.
Per rendere attuabile questo progetto, attese le attuali condizioni della nostra partecipazione alla Comunità Europea, l’innovazione dovrebbe attuarsi nell’ambito globale della Comunità, bensì non esclusivamente. Condizione necessaria è che la Comunità Europea aiuti questo obbiettivo, se risultasse necessario anche a costo di introdurre dazi doganali verso i paesi extracomunitari, non soltanto per proteggere le nostre industrie ed i nostri prodotti, bensì per sottolineare l’instaurazione di una nuova politica-obbiettivo, quello della massima occupazione, quale nuovo modello sociale ed industriale, a valere quale esempio per il resto del mondo.
Non è più accettabile, infatti, tollerare un tale livello di disoccupazione senza seri ed urgenti provvedimenti (quelli proposti in periodo di elezioni politiche mi sembrano modesti palliativi), anche perché la disoccupazione aumenterà ancora, in quanto la crisi non si risolverà senza una forte scossa. Il resto del mondo avvertirebbe, anch’esso, la necessità di adeguarsi progressivamente a questo civile, umanitario, obbiettivo, contribuendo ad un migliore assetto della Umanità, una sorta di Nuovo Umanesimo.
Newsletter – Anno XVIII – n. 365 del 11 aprile 2018