Una classe dirigente per l’opposizione.
di Vincenzo Olita
La confusa fase della politica italiana oggi registra una dirigenza politica particolarmente debole, frutto di una competizione elettorale in cui le attuali forze politiche di minoranza si sono presentate senza aver compreso le necessità e gli intendimenti del Paese, nella convinzione che le posizioni dell’odierna maggioranza fossero frutto solo di un’errata percezione, per poi scoprire, ma non ancora compiutamente e non unanimemente, che erano stati loro, proprio loro, le teste d’uovo della politica italiana ad aver confuso, scambiandole, la percezione con la realtà. Ho sempre sostenuto che per un sistema democratico sia fondamentale il ruolo che l’opposizione deve svolgere sul terreno parlamentare e complessivamente nel Paese. Da questo punto di vista la situazione italiana non è tra le più facili, l’opposizione berlusconiana, senza più nerbo né prospettive, è costretta a preoccuparsi più della situazione interna al partito che di un’effettiva campagna politica. La scelta di Antonio Tajani, che lascia troppo trasparire di essere europeista più per convenienza che per convinzione, è di basso profilo perché possa ricoprire il ruolo di delfino, ed è preferibile tralasciare la consistenza politica espressa dai due responsabili dei gruppi parlamentari.
Il partito democratico dovrà affrettarsi per il ritorno di Renzi alla guida del Pd, il toscano, pur responsabile del tracollo elettorale, non ha uno spendibile sostituto per la segreteria; il volenteroso e tenero Martina non è attrezzato per comprendere che periferie e disuguaglianze non sono parole magiche in grado di ribaltare il consenso politico, anche se utilizzate a mo’ di cantilena. Se ad un povero, o meglio ad un disagiato economico, è meno discriminante, dico che la crisi economica ha avuto l’effetto di accentuare le disuguaglianze, conquisto le simpatie del professor Domenico De Masi che ha il compito di occupare i talk show politici mattutini, ma al povero non gliene frega niente. Allo stesso modo, se dico continuamente che riparto dalle periferie e, con tanta buona volontà, trascino una trentina di componenti la direzione del Pd a Scampia e Tor Bella Monica per le riunioni, farò felice gli amici giornalisti, che avranno tanto da ricamare sulla novità dell’avvenimento, ma ai periferici non gliene frega niente, non allevio minimamente il loro livello di entropia sociale.
E non dico così perché da liberale credo che la giustizia distributiva sia fondamentalmente un’ingiustizia e le politiche di ridistribuzione di redditi e ricchezze una vaga illusione e una certezza di impoverimento collettivo. Parlo stando dalla parte di quel partito con la preoccupazione che ho per esso, in quanto necessario tassello del gioco di una democrazia rappresentativa; dalla parte di un partito carente di una dirigenza che non è in grado di andare oltre al ruolo di stanca ripetitrice di parole, ma non di concetti, tese alla continua affermazione di una diversità, avvertita solo da una minoranza del corpo elettorale. Al volenteroso Martina e all’opaco Zingaretti occorrerebbe spiegare, e in questo solo Renzi potrebbe supportarli, che la nobiltà della politica la si avverte quando si riesce a trasmettere la prevalenza delle nostre visioni a lungo termine, quando la politica degli avversari la si lascia intravvedere in lontananza, sullo sfondo, altrimenti si corre il rischio di fungere da riservisti di strategie politiche altrui. La politica è anche immaginazione, la politica è il sogno, o meglio, un sogno a cui chiamare tanti a partecipare. La politica è l’immaginazione, se si vuole l’utopia del futuro, capacità della politica è risvegliarla, per cui ci adoperiamo affinché diventi realtà, la politica non è la stagnazione del presente.
Il giovane segretario del Pd sbaglia nel ricordarci ossessivamente dichiarazioni e mosse di Salvini, ottiene solo il risultato di amplificarle. Gustave Le Bon, nella Psicologia delle Folle, mirabilmente ci ricorda che: “Antonio non ebbe bisogno di una retorica sapiente per sollevare il popolo contro gli assassini di Cesare. Gli bastò leggere il testamento di lui e mostrarne il cadavere.”
La sinistra poi, quella di estrazione comunista e, quindi, in misura molta ridotta il Pd, orfana dell’internazionalismo e dell’utopia della dittatura del proletariato, nell’immigrazione e nella scomparsa dei confini ha ritrovato un nuovo credo a cui votarsi e quindi un ritorno alla grande casa planetaria dell’internazionalismo; comunista? No, solo delle persone tanto buone, aperte al cosmopolitismo. Naturalmente, a pagare le conseguenze, sul piano del consenso, di una totale mancanza di analisi, supplita solo da una grande fede nel futuro, è anche la sinistra moderata compressa da populisti e sovranisti, definizioni che spaventano e impressionano solo chi le utilizza, dai possibili alleati a sinistra e dalla gerarchia vaticana. Questa, a sua volta, è convinta di poter affrontare la crisi del Cristianesimo nel mondo occidentale con un universale impegno e attenzione al problema dell’immigrazione, ma è una crisi, ben profonda, di vocazioni e di coinvolgimento spirituale quella che svuota le chiese, a parte le cerimonie matrimoniali e funerarie che le trasformano in sale da spettacolo.
Newsletter – anno XVIII – n. 378 – 19 settembre 2018