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L’Opus Maccaronicum

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Anno XXII – n. 473 – 28 luglio 2022

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L’OPUS MACCARONICUM

di Vincenzo Olita*  

È la seconda occasione in cui mi servo di un titolo plagiato che rende plastico il mio pensiero e immediatamente fruibile il nocciolo della narrazione.

Tra il XV il XVI secolo, vide la sua massima espressione il latino maccheronico come vero e proprio stile letterario, utilizzato dal potere dotto per rendere più garbata e accessibile la lingua ufficiale simbolo d’intellettualità. L’estensivo e gratificante uso popolare spinse, però, a conferirgli una connotazione burlesca che finì nel caratterizzarlocome linguaggio confuso, contraddittorio, dalle svariate interpretazioni che segnò una divaricazione, anche linguistica, tra strati sociali.

Il monaco benedettino Teofilo Folengo nel 1517 pubblicò l’Opus Maccaronicum, in latino maccheronico, appunto, un lavoro di grande successo contenente diversi poemi con molti effetti caricaturali tra cui la Moscheide che racconta il conflitto tra le mosche e le formiche.

Una ruffiana e falsamente amichevole cinquecentesca classe dirigente, nell’impapocchiare il popolo ne resta sostanzialmente impapocchiata, nel senso che sarà proprio il suo linguaggio a essere sopraffatto e pian piano sostituito dal volgare, dal latino vulgus proprio del popolo, anche se è corretto evidenziare che il declino del latino classico era iniziato già al tempo di Carlo Magno.

E allora, perché questo interesse per la glottologia?Per la similitudine tra l’insorgenza del latino maccheronico e il linguaggio contemporaneo, sviluppatosi dopo il conflitto mondiale, che identifichiamo come politichese, politicamente corretto, oscuro e involuto, un linguaggio che ha generato una dicotomia tra popolo e dirigenza: allo stesso modo di come avvenne tra volgare maccheronico e utilizzatori del latino classico.

Resilienza,termine astruso tanto caro ai tecnocrati europeisti da quando gli intellettuali di Davos ne scoprirono l’esistenza: un termine utilizzato in modo del tutto ridondante anche per indicare un piano economico, dal significato del tutto ignorato dalla popolazione. E che dire del Campo largo, del Federalismo, della Vocazione maggioritaria, di quorum, summit, paradigma, interazionie così via. Lo sfrenato uso di anglicismi nel linguaggio politico ha generato il termine inglesorum, inteso come inglese maccheronico, speculare a latinorum. L’arbitrario utilizzo di termini ed espressioni quali: spending review, jobs act, hotspot, Next Generation Eu,Quantitative easing, Fiscal compactè la plastica evidenza di una volontà comunicativa tesa a rendere difficile conoscenza e interpretazione di posizioni e provvedimenti della politica.

Per certi aspetti si ripete l’antica dicotomia tra latino classico, appannaggio dei dotti, e lingua volgare che oggi si traduce nella distanza tra semantica politica-burocratica e linguaggio comune.

Sono aspetti ritenuti secondari e del tutto marginali da deboli pensatori e interessati commentatori: si pensi all’informazione che, anzi, funge da vettore compiacente in una complicata comunicazione e nel non chiarimento di sostanziali posizioni e scenari politici.

Sarebbe utile e interessante se gli Istituti che sondano asfissiantemente l’opinione degli elettori sulle preferenze partitiche – i cui responsabili nell’illustrare i risultati si trasformano in profondi e attenti politologi, con una presunzione tale, da far impallidire Max Weber e Giovanni Sartori – si dedicassero anche a sondare il livello di comprensione, ad esempio, del termine Resilienza. Difficile, manca la perpetua committenza del mondo politico.

Una comunicazione non comunicazione della politica è indubbio che incida pesantemente sulla partecipazione elettorale e non, ma anche quest’aspetto è confinato a marginalità. Chi non è in confidenza con il diritto costituzionale, quindi la quasi totalità della popolazione, non può cogliere, ad esempio, differenze tra sistemi elettorali maggioritari e proporzionali o sulla disciplina delle preferenze. Questo, oltre a generare lamenti e lacrime di coccodrillo sul meno della metà degli aventi diritto che partecipano alle tornate elettorali, non determina nessuna sostanziale preoccupazione sullo stato di anomia della comunità.

Non secondari, in termini di responsabilità verso una necessaria sostanziale e vera comunicazione politica, sono ruolo e funzione della Presidenza della Repubblica.

Peso, capacità e intensità di leadership della classe politica, fino agli inizi degli anni ’80, hanno fatto sì che gli articoli 87 e 88 della Costituzione abbiano trovato una piena interpretazione letterale che, a seguito dalla presidenza Pertini, è andata man mano indebolendosi favorendo un ruolo più propriamente politico del Quirinale.

In particolare, le due ultime Presidenze hanno interpretato la loro funzione con un particolare costante interesse alle complicanze politicheche, specialmente per la Presidenza in corso, ha finito per significare complicanza essa stessa. Tenere in piedi per quattro anni e mezzo un Parlamento che non rispondeva in alcun modo al desiderato popolare, espresso nelle elezioni del 2018, e non giustificandolo se non con l’esigenza di governabilità, peraltro poi non realizzata dalle coalizioni succedutesi, ha significato un contributo alla babilonia del Paese.

Per i poco attenti, per i poco informati, anche tra gli attori secondari della politica e dell’informazione, molte cose sono incomprensibili, ma noi crediamo che nulla è incomprensibile, nulla è senza logica in politica essendo questa, a dispetto dei più, una scienza esatta. Certo, occorre avere le chiavi di lettura, parlare e interpretare un latino classico, sottrarsi all’oscurità della comunicazione in un Occidente ridotto a un’Opera Maccaronicum,  in cui si avverte solo la Moscheide della guerra tra mosche e formiche, che oggi possiamo interpretare come il conflitto tra destra e sinistra, in cui viene tralasciato il guerreggiare, poveretto, degli insignificanti centristi ma non la certezza della perseveranza di una comunicazione al di là dei vincitori della prossima tornata elettorale.

* Direttore Società Libera     


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