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Afghanistan e controinformazione

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Anno XXI – n. 451 – 5 settembre 2021

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AFGHANISTAN E CONTROINFORMAZIONE

di Vincenzo Olita*

Nei giorni precedenti all’entrata dei talebani a Kabul, nella nostra ultima news del 14 agosto lo evidenziavamo, era chiarissimo, l’Occidente nel suo complesso e gli Stati Uniti in particolare stavano subendo un colossale smacco politico militare che avrà rilevanti conseguenze sugli assetti e le relazioni internazionali nel prossimo futuro. L’inconsistenza e la miopia strategica dell’Amministrazione Biden hanno rimarcato l’annosa difficoltà degli Stati Uniti nel gestire crisi internazionali e capovolgimenti politici.
Lo stesso Henry Kissinger ha espresso la sua negatività rispetto a una permanenza ventennale in territorio afghano di truppe occidentali per una missione con obiettivi non chiari sulla durata e sul risultato finale.
Una guerriglia estenuante conclusasi con una resa ingloriosa e ancor più con una caotica ritirata da principianti che lascia il paese più o meno nelle stesse condizioni di partenza. È un risultato che incide pesantemente sul traballante futuro dell’ONU, sull’inutilità della NATO, su un vanaglorioso europeismo e sugli scenari internazionali.
Come indica la parola resilienza, tanto alla moda nel linguaggio politico ma tanto respingente per chi influenzabile non è, dalle crisi nascono opportunità e l’insegnamento semantico non è sfuggito a buona parte della politica occidentale.
A due settimane dalla caduta di Kabul siamo travolti dalla generale soddisfazione per le operazioni di rimpatrio di truppe e profughi, istruttive le dichiarazioni televisive del rappresentante civile della NATO, l’ambasciatore italiano Stefano Pontecorvo, “l’Italia ha fatto bene, I talebani non conoscono il loro Paese, Lasciamo un Paese in cui ci sono dodici milioni di studenti” e così via. Per chiarire, in Italia, con venticinque milioni in più d’abitanti, contiamo poco meno di 10 milioni di studenti comprensivi degli universitari. Con queste consapevolezze degli attori in campo siamo sommersi da una valanga di buoni propositi, “Non li lasceremo soli, Ci batteremo per salvaguardare i Diritti Umani, Chiederemo i corridoi Umanitari”. Insomma un attivismo permeato da entusiasmo tale da oscurare il nostro totale disinteresse per le sorti di quel Paese negli anni della missione militare e in occasione dell’avvio della resa, salvando, a onor del vero, solo il Metternich di Pomigliano d’Arco che, infelice, dichiarò che si trattava di una “ritirata d’importanza epocale”.
Al di là del mostrarsi partecipi, comprensivi e disponibili per gli afghani immaginati e rappresentati tutti schiavi di centomila tagliagole, nostalgici e convinti colonialisti si spingono ad accarezzare un futuro ritorno di una missione militare in un paese sconvolto anche da una corruzione fuori controllo.
Non è bastato il pesante dramma di un’inutile e fallimentare guerra, migliaia
di morti tra militari, agenti privati e secondo fonti umanitarie, centomila afgani tra combattenti e civili.
Ma è sul terreno della costruzione del proprio ruolo e dell’implementazione della propria immagine che la politica ha dimostrato tutta la sua capacità di concretizzare la resilienza, naturalmente ben supportata dall’informazione in qualità di sottoprodotto della stessa politica.
In altri termini, in occasione di un fallimento politico militare di un intero emisfero, in cui le leadership e la politica succedutesi nel ventennio avrebbero dovuto essere chiamate almeno in valutazioni parlamentari e giornalistiche, ci si trova innanzi a un sostanziale ribaltamento di ruoli e posizioni.
I silenti in quattro lustri trasformati in grilli parlanti, i peones della politica si scoprono conoscitori di storia e geografia delle religioni, i vertici politici annunciano straordinarie iniziative come la convocazione di un G20 allargato alle potenze regionali. Indipendentemente dalla sua effettiva realizzazione e dalle eventuali conclusioni Mario Draghi è già stato individuato un leader planetario che ha consentito anche la centralità dell’Italia nel dibattito internazionale. Siamo alla novella del contadino che trasportando la ricotta al mercato immagina che da quel guadagno ne scaturiranno mandrie.
Non è bastato il fallimento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che, a fine agosto con l’astensione di Cina e Russia, approva solo una debole e inconsistente risoluzione sull’Afghanistan, a dimostrazione della reale centralità di cinesi, russi, pakistani iraniani e turchi in quello scacchiere.
Il G20 annunciato, grazie alla nostra annuale presidenza, sarà difficile da realizzare e in tutti i casi, la torre di Babele non potrà non partorire che un topolino. Questo è secondario, importante è l’annuncio della centralità italiana.
Joe Biden rivendicando il successo della ritirata statunitense si presenta come un leader attento alle vere prossime sfide come se la rovinosa resa fosse stata solo un secondario problema.
E poi l’europeismo, ancora un’assenza in una crisi per favorire la sua ennesima centralità, ormai è qualche decennio che assistiamo al mantra sull’evidente bisogno di un’implementazione europea.
Insomma, ruoli, rilevanza e posizioni sono stati esaltati su larga scala grazie alla debacle occidentale in Afghanistan, la controinformazione ha dimostrato la funzionalità della resilienza, la speranza è che ventitré milioni di profughi da Formosa non siano tra le prossime opportunità.

* Presidente Società Libera


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