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Cominciò a Kabul

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Anno XXII – n. 464 – 26 febbraio 2022

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Cominciò a Kabul

di Vincenzo Olita*

Sono passati solo sei mesi dalla poco onorevole ritirata dell’Occidente dalle terre afghane, mascherata da un roboante ma effimero interesse per il destino delle donne di quel Paese, che ricordava quel magistrale testo della canzone di Giorgio Gaber: “Come è bello occuparsi dei dolori di tanta, tanta gente Dal momento che in fondo
Non ce ne frega niente. Il tutto è falso Il falso è tutto“.

Uno sbaglio epocale dell’Amministrazione Biden che, in appena centottanta giorni, ha favorito la normalizzazione e la scomparsa dell’opposizione a Hong Kong, il pressante risveglio della volontà cinese per l’annessione di Formosa, il conflitto in Ucraina e la conseguente crisi energetica per una parte dell’Europa, il ritiro dal Mali della Francia e degli europei in favore di Russia e Turchia. Insomma, un capolavoro di strategia planetaria su cui si appassioneranno gli storici del prossimo futuro.

E sì, considerando che l’inadeguatezza di Washington ha incrociato crisi e pochezza di apparati e istituzioni che continuano a segnalare un loro lungo e inesorabile tramonto. ONU, NATO e Ue appartengono al mondo di ieri, che piaccia o no, occorre prendere atto che non vi è crisi, non vi è tensione, non vi è tragedia in cui le tre organizzazioni non mostrino la loro inefficacia. Sicuramente riconoscere questo stato di cose per alcune Nazioni, Popoli, Elettorati, Partiti e Dirigenze varie, significa subire uno stato di anomia e disorientamento, ma è proprio il riconoscere stati di fatto unitamente a concrete e lucide visioni del futuro che determina la differenza tra declino e popoli emergenti.

Il ripristino della quiete a Hong Kong, anche se passata sotto silenzio come la situazione nel Sahel, la volontà d’annessione di Formosa, anche se momentaneamente accantonata, la Russia con l’occupazione dell’Ucraina e la congiuntura energetica sono paragonabili a un ’48 dell’Ottocento, che vide il declino di un mondo ancorato alle risoluzioni del Congresso di Vienna del trentennio precedente, così come il nostro Occidente è fermo al 1949 e al superato scudo della NATO. Allo stesso modo, la Storia si ripete, l’Europa ferma al trattato di Versailles del 1919 non avvertì a pieno che nel 1933 gli assetti continentali erano mutati.

Un Occidente debole e frastornato, va da sé, che favorisce vecchie rivendicazioni e nuovi appetiti e, difficilmente, analisti specialisti in analisi strumentali, spingono la riflessione fino a individuare le profonde criticità della dirigenza occidentale.

In molti si sono adoperati, invano, per intestarsi il successo diplomatico capace di allentare la tensione. Da Macron, convinto di poter capitalizzare il suo attivismo nelle elezioni presidenziali di aprile, al Cancelliere Scholz, apparentemente rassicurante con Biden, di fatto, continuatore del doppio binario tedesco in politica estera.

Dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, il tenero Borrell, che con le sue banali dichiarazioni fa rimpiangere la silente Mogherini, a Jens Stoltenberg, Segretario generale NATO, con il fantasioso pendolarismo delle sue affermazioni: “Le dichiarazioni di Putin confermano lo schema aggressivo della Russia, 16 giugno 2015; La Russia non rappresenta una minaccia per gli alleati della Nato e l’Alleanza mira a un grande partenariato con la Federazione russa, 4 novembre 2016; La Russia è una delle principali minacce mondiali, 31 gennaio 2018″. Poi il nostro Draghi, dalle smisurate aspettative, che non è riuscito a bissare la delusione del G20 sull’Afghanistan, e il compassionevole Metternich di Pomigliano d’Arco che in un giorno passa dalla:Nostra ambasciata di Kiev aperta, funzionale ed efficiente” ad “abbiamo avviato le prove di evacuazione della nostra ambasciata”.

L’inadeguatezza delle leadership europee e nordatlantiche, in effetti, la si è misurata dall’impreparazione e dal pressappochismo in risposta alla lucida avanzata militare russa.

Un turbinio di dichiarazioni inconcludenti e riunioni che intrecciano ruoli, posizioni e vertici di politici, diplomatici, militari e uomini di buona volontà il più delle volte distanti da qualsivoglia visione strategica.

Un toccasana utile per ogni dichiarazione: Le Sanzioni.

Europa, USA, NATO, ognuno ha pronta la sua ricetta, in pochi si soffermano sulle controindicazioni. Il prezzo del grano alle stelle, petrolio e gas un’inestimabile criticità per le economie occidentali e il tenero Borrell dichiara che gli oligarchi russi non spenderanno più il proprio denaro a Londra o Saint Tropez.

Ritornando al nocciolo, dopo lunghe trattative, questa situazione si poteva evitare?

Se per l’Occidente è di rilevante interesse strategico che l’Ucraina entri a far parte della NATO, certamente no. Non vi sono margini di trattativa così come non ve ne furono per i missili sovietici a Cuba.

Se una comatosa alleanza militare non avesse assunto un’impropria importanza in un’Europa politica, distante da una rissosa assemblea condominiale, conscia di un suo possibile ruolo planetario, nobilitato da storia e cultura, capace anche di guardare alla Russia come a un pezzo d’Europa, e non a un ormai alleato della Cina, oggi la Storia avrebbe un’altra piega.

Purtroppo se la turbolenza ebbe inizio a Kabul, con questi presupposti, non finirà a Kiev, la strada per Taiwan non sarà molto lunga e la solitudine delle Genti d’Europa ancora più amara.

* Direttore Società Libera                                


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